Cracovia. Visita ad Auschwitz-Birkenau, i luoghi della memoria

Cracovia_Auschwitz

Cracovia. Visita ad Auschwitz-Birkenau, i luoghi della memoria

Visita ad Auschwitz-Birkenau, il campo di concentramento alle porte di Cracovia, un luogo ricco di storia e di umanità, un’esperienza da fare almeno una volta nella vita


28 dicembre – 3° giorno 

Oggi lasciamo Cracovia per dirigerci a Oswiecim, che tutti noi conosciamo con il nome di Auschwitz, in tedesco.

Quello che viene generalmente chiamato “Auschwitz” è in realtà un complesso di numerosi campi.

I principali sono Auschwitz 1, il primo campo di concentramento oggi sede dell’esposizione/museo, Auschwitz 2-Birkenau, il campo di sterminio costruito successivamente come ampliamento del primo e Auschwitz 3-Monowitz; da questi dipendevano altri campi sussidiari, circa una cinquantina.
Di Monowitz, il campo in cui è stato deportato Primo Levi, non rimangono resti e il complesso industriale costruito dai prigionieri, la Buna, è oggi sede di due grandi aziende polacche.

Il termometro segna -5° ma qui la norma è -20°; dopo circa un’ora e mezza di attesa alla biglietteria, durante la quale ho seriamente pensato di abbandonare l’impresa per evitare il congelamento, iniziamo la nostra visita di Auschwitz 1.
(Qui trovate le informazioni pratiche per organizzare la visita)

Il recinto di filo spinato di Auschwitz

L’isolamento del campo per impedire il contatto dei prigionieri con il mondo esterno

IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI AUSCHWITZ

Superato l’edificio che ospita la biglietteria e il centro visitatori, un tempo parte del lager, lo sguardo viene subito catturato dalle lettere in ferro sopra il cancello d’ingresso che compongono la beffarda scritta “Arbeit macht frei”, “Il lavoro rende liberi”.
Ai lati la doppia recinzione di filo spinato elettrificato, interrotta solo dalle torri di guardia, circonda l’intero campo impendendo ai prigionieri ogni contatto con l’esterno.
All’interno si trovano le cosiddette “baracche” o “blocchi”, edifici squadrati in mattoni rossi.

La zona, prima dell’occupazione nazista, era la sede delle caserme asburgiche; la pianta del campo è quindi molto razionale con gli edifici disposti parallelamente uno accanto all’altro che si affacciano sui viali di passaggio.

I blocchi di Auschwitz

Oggi sembra impossibile pensare a queste strade come a luoghi di morte e sofferenza

Il cielo azzurro interrotto da qualche candida nuvoletta, le file ordinate di alberi ai lati delle strade, l’erba ben tagliata, i bambini che scorrazzano con i loro piumini e cappelli colorati e gli adulti che passeggiano lentamente intenti a scattare foto con reflex costosissime rendono difficile immaginare l’orrore, di ogni genere, che animava un tempo queste strade.

I blocchi sono adibiti a mostra permanente e illustrano la storia del campo e la vita al suo interno.

A testimonianza della brutalità del posto rimangono documenti e oggetti di quanti tra queste mura spoglie hanno vissuto o perso la loro vita: cumuli di valigie, occhiali, scarpe, ciotole e utensili raccolti a seguito della spoliazione che veniva praticata dopo l’ingresso al campo, fino ad arrivare al mucchio di quasi 2 tonnellate di capelli tagliati alle donne e destinati alla produzione di tappeti.

Le scarpe dei prigionieri di Auschwitz

Le scarpe dei prigionieri dopo la spoliazione

Le valigie dei prigionieri di Auschwitz

Valigie piene di vana speranza

 

Le condizioni di vita dei prigionieri vengono mostrate attraverso l’esposizione delle leggere e logore divise a rigoni, delle scarpe simili a zoccoli con cui camminavano su fango, neve e ghiaccio, e di una riproduzione di quello che era il rancio giornaliero dei prigionieri.

Il Blocco 11, chiamato anche blocco della morte in quanto luogo destinato alle punizioni, ospitava nel piano interrato le celle, e al piano terreno la stanza in cui si riuniva una sedicente commissione di giustizia che aveva il compito di giudicare i prigionieri detenuti nello stesso blocco.

L'ingresso di uno blocco di Auschwitz

L’ingresso di uno dei blocchi

Neanche a dirlo la sentenza più frequentemente emanata era la pena di morte, che veniva eseguita immediatamente fuori, davanti al muro della morte.

Le pareti di alcune baracche sono completamente ricoperte con le fotografie dei prigionieri; i tedeschi scattavano fino a tre foto per prigioniero che archiviavano poi con dovizia maniacale per creare quello oggi chiameremmo un macabro ma perfetto database.

L’ultima sezione del campo accoglie invece i forni crematori, nascosti in un basso edificio sotto un terrapieno, ex deposito delle munizioni.
La prima stanza, un sotterraneo umido e ammuffito, era la “doccia” sul cui soffitto si notano delle aperture attraverso le quali venivano immessi i cristalli di Zyklon B per la gassazione.
Una porta sulla parete conduce alla stanza adiacente con i due forni crematori.

Riguadagnamo l’uscita e l’autista ci carica in macchina per portarci a Birkenau, a soli 3 km da qui.

L'ingresso di Birkenau

L’ingresso di Birkenau. “Lasciate ogne speranza, voi ch’ intrate”

IL CAMPO DI STERMINIO DI BIRKENAU

La nostra visita a questo campo è stata breve, circa mezz’ora, un tempo insufficiente per una visita completa.
Siamo arrivati alle 15.00 e a partire dalle 15.30, a causa del buio, chiedono di lasciare il campo in modo che i guardiani possano fare il giro di perlustrazione prima della chiusura.
Mi è molto dispiaciuto perchè Birkenau è il campo che maggiormente riesce a dare l’idea di quanto accadesse ai tempi della sua attività, nonostante sia rimasto pochissimo da vedere.

Birkenau sorge su quella che era la cittadina di Brzezinka, sfollata e rasa al suolo come già fecero con Oswiecim, per poter costruire il campo a partire dal 1941.

Il filo spinato a Birkenau

Le spine di Birkenau

La sua funzione è ancora più raccapricciante rispetto ad Auschwitz: potenziare la capacità di morte del Lager.
Auschwitz, con due soli forni, non era in grado di soddisfare gli elevati ritmi di cremazione necessari a eliminare i corpi dei prigionieri gassati quindi crearono il campo di sterminio.

Riconosciamo immediatamente l’ingresso: un lungo edificio con un arco centrale attraverso il quale passava il treno che trasportava i deportati.

Il binario che attraversa il campo di Birkenau

Il lungo binario che attraversa il campo

Varcato l’ingresso lo sguardo non riesce a cogliere i confini del campo che prosegue a perdita d’occhio.
Il binario divide il campo in due settori: a sinistra la zona delle donne con le baracche in muratura e a destra la zona degli uomini con le baracche in legno.
Noi abbiamo visitato la zona maschile di cui rimane ora solo la prima fila di baracche, originariamente stalle per i cavalli.

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Il vagone rosso

Le altre file sono state distrutte; rimangono solo i camini in mattoni che riscaldavano i blocchi durante la notte e che consentono di immaginare quante baracche ci fossero.

Sul binario della ferrovia interna al campo è stato lasciato un vagone rosso, esempio di quelli utilizzati per il trasporto dei prigionieri.

Sul fondo del campo si vedono le macerie di uno dei forni crematori da cui se ne intuisce la struttura.

I forni crematori di Birkenau

Le macerie di uno dei forni crematori

Proseguendo verso destra ci si trova davanti al grande monumento eretto alla memoria di un milione e mezzo circa di deportati provenienti da tutte le nazioni e morti a Birkenau.

Il memoriale a Birkenau

Il memoriale eretto a Birkenau

Riattraversiamo il campo, questa volta sul lato femminile, e in fretta e furia veniamo prelevati dall’autista che ci  riporta a casa.

Visitare il campo di Auschwitz era da tempo un mio desiderio.
Percorrere quelle strade, entrare nei blocchi, fermarsi davanti ai cumuli di oggetti appartenuti a milioni di persone che sono morti dentro quei recinti è camminare nella storia, una storia ancora recente e di cui ancora oggi percepiamo gli effetti.
La guida, un po’ fredda e distaccata, le persone che parlano, ridono e si fanno selfies distolgono dalla riflessione e dal raccoglimento personale che un luogo del genere richiede per capirne meglio la portata umana oltre che storica.
Perché Auschwitz oggi è un memoriale del passato ma sopratutto un monito per il futuro.

Mentre ero lì a passeggiare tra le baracche crollate evitando le pozzanghere ghiacciate e a osservare le strette tavole in legno su cui dormivano ammassati prigionieri o i buchi delle latrine ho dovuto più volte ripetermi che mi trovavo in un luogo vero, realmente esistito e non sul set di un film o in una parco degli orrori.
Auschwitz mi ha mostrato scene talmente crude che la mia mente faticava ad accettarle come reali .

Descrivere e raccontare Auschwitz è davvero difficile quindi chiuderò questo post con le parole di Primo Levi, uno tra i pochi sopravvissuti dei seicento italiani deportati a Monowitz, che ha trascorso la sua vita cercando di far conoscere il terrore e l’orrore di questi luoghi nella speranza che la storia futura non debba nuovamente assistervi.

“Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato cento volte avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell’anima prima che dalla morte anonima.
Noi non ritorneremo.
Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare al mondo, insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo.”

Buona visita.

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